GLI SCRUTINI AI FIGLI MEGLIO FARLI TUTTO L'ANNO
Sono da poco venuta a conoscenza del fatto che oggi, se un ragazzo viene bocciato, “il lupo se lo mangia”, ossia sparisce; sul cartellone affisso a scuola ci saranno i nomi di tutti i suoi compagni (promossi o con vari “debiti”, altra bella invenzione), il suo no.
Perché? Sembra per il bene dei nostri ragazzi, per esorcizzare, invocando il diritto alla privacy, la paura degli atti estremi (leggi suicidi), che negli ultimi anni parecchi ragazzi hanno portato a segno in seguito a una bocciatura in genere strameritata e prevista.
Ora, era già molto grave che così spesso il ricatto dichiarato o ventilato del “non potrebbe reggere il trauma” trasformasse in promozione una situazione scolastica trascinata avanti all’insegna del menefreghismo e del tira a campà.
Più di un preside mi ha interpellato in questo senso.
Quello era molto grave, oggi abbiamo raggiunto il ridicolo.
Noi adulti, noi che dovremmo insegnar loro ad assumersi delle responsabilità, anche quella di non aver fatto nulla tutto l’anno, di aver “bigiato” le lezioni, di aver preso in giro i professori, noi adulti non riusciamo ad assumerci la responsabilità di una sana, terapeutica bocciatura. Abbiamo paura. E se si suicida?
Fermiamoci un momento a pensare, ma seriamente, ai nostri figli.
È vero, i suicidi sono in aumento e i motivi sono fondamentalmente due: bocciature e interruzione di rapporti affettivi.
Andiamo a vedere cosa hanno in comune queste due situazioni.
Per i ragazzi del terzo millennio, per molti ragazzi del terzo millennio, allevati in una realtà di solitudine e onnipotenza, abituati a pretendere con le buone, ma più spesso con le cattive, tutto ciò che salta loro in mente, abituati a prendersi ciò che non riescono a ottenere, abituati a misconoscere la realtà, perché questa si sposta al loro passaggio, la bocciatura o la morosa che li pianta rappresentano il primo scontro con qualcosa che non possono modificare con la loro volontà.
Fino a quel momento avevano pensato in maniera delirante di poter avere tutto, ora il loro piedistallo si è frantumato e loro si trovano a rotolare miseramente nella polvere, insieme a tutti quelli che avevano guardato dall’alto.
È chiaro che una presa di coscienza di questo tipo porta a vissuti depressivi, che possono sfociare nel suicidio; molto più spesso si tratta di tentativi di suicidio, che appartengono ancora alla personalità onnipotente e sono l’ultimo, disperato tentativo di riprendere il sopravvento (“Come avete osato? Ora vi metto in ginocchio!).
Purtroppo questi tentativi possono per motivi fortuiti andare al di là delle intenzioni e finire male.
Certo è che se continuiamo a proteggere, a difendere, a ritardare il confronto dei nostri giovani con la realtà, le cose andranno peggio, molto peggio, perché l’onnipotenza e la manipolazione della realtà sono il miglior terreno di coltura per le gravi patologie psichiatriche dissociative.
Si tratta a questo punto di correre un rischio per evitare una certezza.
Forse però bisognerebbe non arrivare a questo punto.
I genitori dei ragazzi bocciati riceveranno una lettera. A giugno.
Dove erano a gennaio questi genitori? Dove erano i professori che manderanno la lettera? Perché la scuola italiana (università compresa) non si rende conto che il suo utente non è il ragazzo, ma il genitore.
È il genitore che paga, è il genitore che chiede un servizio (la collaborazione nell’educazione-istruzione del figlio), ed è con il genitore che vanno verificati i risultati.
E perché d’altro canto ci sono ancora tanti genitori che preferiscono pagare, a volte anche molto, per essere lasciati in pace invece che per essere aiutati ad aiutare il loro figli? I ragazzi del terzo millennio rischiano il suicidio perché sono cresciuti orfani, perché mamme e papà hanno perso per strada il loro ruolo, che non è quello di portare a casa tanti soldi per avere la casa al mare, in montagna, la macchina a 18 anni, le vacanze esclusive eccetera, ma quello di insegnare ai figli a riconoscere un’autorità, delle regole, dei confini; di insegnare, meglio con l’esempio, a prendersi delle responsabilità e a pagarne le conseguenze.
Se avranno conosciuto la realtà a 3, 6, 9 anni, non avranno alcuno scontro violento a 16, 20, 25 e non ci sarà bisogno di avere paura e di inventare stupide strategie per comunicare un fatto che è, o dovrebbe essere, già noto a tutti.
Da “Italia Oggi” di martedì 4 luglio 2000, p. 44
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